Specchio della psiche e della civiltà
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 08 maggio 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Quinta Parte)
8. Proviamo ad entrare almeno un po’ nella mente del soggetto medievale.
Una delle maggiori difficoltà per l’interpretazione della sensibilità medievale
consiste nel riconoscimento di contrasti, antinomie e incoerenze quali contraddizioni
culturali riflesse nell’animo umano perché, in quanto molto diverse da
quelle dei nostri giorni, non sono intuitivamente comprensibili. Infatti, uno
dei modi non scritti per comprendere la realtà storica consiste nell’uso automatico
e involontario di processi cognitivi elementari – nel nostro cervello intimamente
fusi con memorie operanti nei giudizi di qualità e valore – le cui inferenze
danno luogo alla cosiddetta comprensione intuitiva, alla quale può associarsi
una parziale o totale, ma ugualmente inconsapevole, identificazione con i soggetti
agenti in modo coerente con il nostro modo di sentire, ossia l’immedesimazione.
Il problema, a mio avviso, è che una contraddizione rilevata ma non
compresa, spesso diventa una realtà non analizzata, perché si rischia di
essere psicologicamente soddisfatti dall’averla etichettata come incoerenza e
non si senta il bisogno di indagarne l’origine. In parte, sempre in un’ottica
psicologica, il rischio di “omissione di indagine” può anche derivare dalla
mancanza di esercizio di autocoscienza critica, rivolto a sé stessi come
individui e alla realtà sociale cui si appartiene. Non si può negare l’abitudine
collettiva ad un agire mentale ridotto ad un continuo sintonizzarsi sulle
lunghezze d’onda imposte dai modi sociali condivisi, che fa rimanere sempre all’interno
di schemi consueti, in una sorta di “attività passiva” – mi si perdoni l’ossimoro
– che spegne la consapevolezza di una possibilità di vita mentale diversa. In
particolare, una scelta di collocarsi come osservatore all’esterno del contesto
abituale, con l’agio temporale, l’indipendenza di giudizio e lo spettro di paradigmi
necessari ad esercitare in piena libertà il potere dell’auto-osservazione, individuale
e sociale.
Assuefatti, come siamo, alle contraddizioni della nostra società, non
riusciamo più a vederle ma, ad esempio, se un domani si affermerà una “civiltà
dell’amore”, vedrà come un assurdo incomprensibile il fatto che in un paese
civile, dove l’omicidio è punito come accade fin dall’alba della storia dei
popoli con le pene più severe, si possano “detenere legalmente” armi da fuoco concepite
per uccidere. E vedrà con chiarezza come la vendita quotidiana di “armi legali”,
attraverso una fitta rete di negozi collegati all’industria di produzione delle
armi e alla lobby degli armieri, renda un servizio alla criminalità e
complichi spesso le indagini delle forze dell’ordine per risalire agli autori
di un crimine.
Se riflettiamo su questa condizione attuale, forse ci risulta meno
stridente la contraddizione medievale di ordini monastici che contemplavano la
spada e il pugnale nell’equipaggiamento dei consacrati, devoti alla
testimonianza della carità in giro per il mondo. Ma la comprensione in questo
caso è facile, perché si tratta dello stesso genere di antinomia. Più
difficile comprendere perché una fanciulla infliggesse all’amato, di lei
innamorato, veri e propri tormenti; o perché si potesse giungere a perseguitare
un trovatore o menestrello per ucciderlo o mandarlo al rogo, solo per essere stato
inopportuno esecutore di una canzone molesta.
Nel primo caso è necessario entrare nei modi del pensiero elaborati come conseguenza
dello stile educativo e desumere da missive, scritti privati e testi letterari,
che le giovani formate nel rigore della castità, dei digiuni, dell’operosità
obbediente e dell’elevazione dello spirito con la preghiera e l’arte, ritenendo
di incarnare la rettitudine con la fortezza e la temperanza, si
attribuivano – a torto o a ragione – anche la prudenza e la giustizia[1], arrogandosi il diritto di mettere
alla prova le virtù dell’amato per saggiarne il valore e la capacità di
perseverare nei propri sentimenti, quale segno di uno spirito temprato nella costanza
spirituale e, per questo, in grado di tener fede al patto coniugale.
Nel caso del compositore ed esecutore di canzoni con l’accompagnamento di
quei meravigliosi strumenti a corde predecessori del liuto che costituivano il
vanto dell’artigianato musicale nostrano, è necessario considerare il ruolo che
aveva la superstizione, pur condannata e combattuta dalla Chiesa, nella società
medievale. Un menestrello di corte, o un giovane improvvisatore di musica e
versi di gusto provenzale, poteva essere incaricato di eseguire, nei pressi
della dimora di un rivale in politica o in affari, un brano “portatore di
sventura”, suscitando indignazione, paura o addirittura terrore, se era noto
che in precedenza quella stessa musica era stata realmente seguita da eventi
infausti.
Cose simili si verificavano anche in epoca romana, quando il maleficio era
allontanato con riti apotropaici che facevano ricorso a simboli riconducibili al
dio Priapo. Sebbene i Romani avessero messo al bando con pene severe tutte le
pratiche che andavano “oltre la religione”, indicate appunto col termine superstitio, alcuni di questi riti magici erano sopravvissuti
in clandestinità e tramandati, pur con inevitabili modifiche, fino al medioevo.
Il “canto del malaugurio” poteva essere interpretato secondo uno spettro che
andava dalla mancanza di rispetto, intesa quale onta che doveva essere lavata
col sangue, fino all’evocazione di un potere diabolico che meritava la denuncia
all’autorità religiosa e una pena esemplare.
L’esempio della fanciulla che si arroga il diritto di giudicare, valutare e
mettere alla prova un innamorato, agendo come una regina un po’ dispotica con
un suddito devoto e sottomesso, può essere ancora considerato e approfondito, perché
ci aiuta a comprendere altri aspetti di quella realtà.
Ci si può chiedere perché si suppone che il giovane accetti, o meglio
condivida, la concezione della fanciulla? La risposta storica ci fornisce un piccolo
ma prezioso strumento per l’interpretazione del modo di sentire del tempo: i
due sono accomunati dalla cultura che diede origine agli Ordini Cavallereschi, autori
della definizione del cavaliere quale figura sociale del perfetto soldato
cristiano al servizio del prossimo inerme. Storicamente, si è colta l’evoluzione
dei giovani armati dell’epoca romana in difensori dei valori cristiani,
spesso al servizio delle fanciulle che li incarnavano con le proprie virtù, e originariamente
onorati di compiere questa missione per puro dovere morale, senza aspirare ad
alcun riconoscimento o compenso.
Quattro parole, ciascuna delle quali meriterebbe un intero saggio per
essere illustrata nel suo più profondo significato con gli esempi della storia,
costituiscono capisaldi della disciplina interiore dei cavalieri in tutta
Europa: onore, lealtà, rispetto e fedeltà[2].
Se si riflette su un punto – sul quale ritornerò più avanti – bene rappresentato
dalla costituzione degli Ordini Cavallereschi e dal loro impatto su ogni
aspetto della vita sociale, ossia che il Medioevo è un’epoca di realizzazione
di ideali umani, si comprende una qualità essenziale che distingue quell’epoca
da questa contemporanea. Gli ideali diventano persone e istituzioni, stili di
vita, branche del sapere, opere d’arte e modi di esperire, intendere e
rappresentare la bellezza. Sicuramente con tanti limiti, incompiutezze, contraddizioni,
fraintendimenti e fallimenti, ma pur sempre con un punto di partenza in un’idea
ispirata a principi astratti e universali[3].
Se si conosce la cultura cavalleresca e il ruolo degli esempi evangelici
nella pedagogia familiare, si intende la donna angelicata di Dante quale resa
poetica di una realtà, costituita dall’impegno quotidiano a realizzare in sé
stessi un modello venerato, quale quello mariano.
Ma veniamo a un altro tratto caratteristico e problematico dell’Età di
mezzo: l’involuzione riguardo ai criteri socialmente condivisi per i giudizi di
valore e l’interpretazione dei fatti della vita.
La bias del giudizio per appartenenza presso i farisei era stata
seguita fino alla conseguenza estrema di condizionare i processi logici
ordinariamente adoperati per interpretare la realtà alla luce del proprio credo
morale. Nel Medioevo si era ricostituita questa forma di “cognizione sociale”
che era diventata un costume di pensiero in grado di soffocare l’esercizio dell’intelletto
secondo logica, sostituito da una stima predefinita in base al processo mentale
dell’associazione semplice: sono nel male coloro che appartengono al male, nel
bene quelli che appartengono al bene per nascita, per etnia, per costume. Come per
i Giudei di tradizione farisaica i Samaritani erano in quanto tali nel peccato,
così per molti cristiani medievali chi era nato in terra islamica apparteneva
inesorabilmente al male.
Nell’epoca di mezzo della storia, come nel fariseismo decadente, a questo
giudizio per appartenenza si associava, nella ricerca delle cause di disgrazie
e sventure, la logica retributiva quale criterio universale applicato in
modo sistematico ed acritico. In altri termini, chi nasce o diventa cieco, storpio,
lebbroso o muore per sciagura o malattia, si considera punito per i peccati
commessi dai suoi genitori o da sé stesso. Gesù Cristo, per riportare alla
ragione coloro che lo ascoltavano, impiega proprio un Samaritano quale modello di
carità e presenta la realtà casuale e non retributiva delle disgrazie,
attraendo l’attenzione sul recente episodio del crollo accidentale della Torre
di Siloe: “O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise,
credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?”[4].
Alla pigrizia del giudizio per appartenenza, basato su un processo elementare
vicino all’associazione percettiva e tipico dell’intelligenza animale, la
ragione cristiana sostituisce l’obbligo del giudizio logico centrato sulla
verifica di una qualità astratta, consistente nella libera scelta di attuare la
volontà divina[5]. L’universalismo cristiano si
spiega proprio con il superamento di questa barriera cognitiva, costituita in
seno alla ragione giudaica, che aveva messo la forma dell’appartenenza al posto
della sostanza costituita dalla qualità morale. Gesù spiega che non si è “eletti”
o “giusti” in quanto appartenenti al popolo ebraico, ma in quanto credenti
esecutori della Volontà del Padre Creatore, che consiste nell’amore oblativo.
Di grande rilievo, quale fondamento dell’antropologia cristiana, il
superamento del ricorso obbligato dei farisei alla logica retributiva, che oggi
sappiamo supportata dalla tendenza psicologica profonda a cercare sempre una causa
intenzionale del danno quale risposta a un comportamento. Se impieghiamo il vecchio
paradigma psicodinamico dei meccanismi di difesa, possiamo considerare questa
logica una forma di razionalizzazione: se ogni male è una punizione per
una colpa, basta tenersi lontani dal peccato per evitare qualsiasi rischio. Anche
in questo caso, si può riconoscere all’origine un processo automatico piuttosto
elementare, e perciò ritenuto “primitivo” in psicologia.
Nel Medioevo, il giudizio per appartenenza e la logica
retributiva sembrano ritornare prepotentemente e ripresentarsi per secoli
fra le genti di tutta Europa, per cause la cui analisi supera i mezzi di cui dispongo,
ma fra le quali non si può escludere l’influenza del ricorso costante al pensiero
magico nell’interpretazione della realtà. Infatti, il documentato
riconoscimento del pensiero magico nella società medievale poteva favorire l’abitudine
ad un certo grado di passività mentale: abituarsi ad accettare spiegazioni non
logiche degli eventi, che chiamano in causa poteri misteriosi, poteva ridurre
la tendenza all’esercizio critico che avrebbe consentito facilmente di rilevare
l’irragionevole contraddizione di quei due processi di pensiero con la logica
cristiana.
9. Come apparivano le genti del Medioevo ai contemporanei e come ci
appare oggi il loro mondo. Dopo aver provato ad entrare un po’ nella mente
medievale, proviamo a spostare la focalizzazione della nostra attenzione, come
azionando un obiettivo “zoom” all’inverso, per uscire dal particolare e gettare
lo sguardo sull’insieme.
Le comunità cristiane dei primi secoli, con la loro vita ordinata e
coerente con i principi della fede, offrono all’esterno un’immagine che colpisce
i membri della maggioranza della società tardo-antica: loro sono “gli altri”, i
diversi e, in un certo senso, gli sconosciuti. Ma non sono stranieri. Questo è
un punto fondamentale, a mio avviso, per comprendere la differenza fra un
mutamento di sensibilità all’interno di una cultura e l’incontro fra culture
etniche o nazionali del tutto diverse. Consideriamo questa immagine attraverso il
giudizio e le parole del medico più celebre dell’antichità dopo il mitico
Ippocrate di Kos[6], cioè Galeno di Pergamo: “Il loro
disprezzo della morte ci sta davanti ogni giorno, come pure la loro moderazione
nei rapporti sessuali. Giacché tra loro vi sono non solo uomini ma anche donne
che si astengono dai rapporti sessuali per tutta la vita; e tra loro vi sono
anche individui che, per autocontrollo e disciplina interiore, hanno raggiunto
un livello non inferiore a quello di autentici filosofi”[7].
Secondo Peter Brown questa descrizione data da Galeno alla fine del secondo
secolo diventa il tratto caratterizzante nel tempo avvenire dell’ecclesia
cristiana, costituendo l’immagine che la distingue dal giudaismo e dall’islamismo[8].
La riconoscibilità, in gran parte fondata sull’osservanza di quell’insieme
di regole descritto spesso come “ascetismo cristiano”[9], che includeva la verginità dalla
nascita al matrimonio, l’astinenza sessuale con l’eccezione del rapporto
generativo tra coniugi e la monogamia assoluta, si conserva anche perché, per
profonda adesione alla parola del Vangelo e ai testi paolini che indicavano l’incompatibilità
tra desiderio della carne e volontà divina, gli anziani decretano l’assoluta imprescindibilità
del celibato per essere presbitero e pastore di anime, mentre proprio in
quegli anni l’ascesa del rabbinato definiva per i consacrati ebrei l’obbligo
del matrimonio. Infatti, presso i Giudei e tutti gli osservanti della Torah, si
considerò il coniugarsi dei consacrati un “criterio di saggezza”[10]. Al contrario, fra i testimoni del
messaggio evangelico il prendere moglie o marito era già considerato
espressione di debolezza e segno di imperfezione nella fede, tanto che le
persone rimaste vedove di ambo i sessi rarissimamente si risposavano.
L’unione coniugale era vista più come una condizione prossima di peccato
che come una protezione dalla trasgressione dei comandamenti sesto e nono, fino
a quando si diffuse e si affermò la concezione di Sant’Agostino che, come è
noto, considerò il matrimonio un sacramento superiore all’ordine sacro, perché nel
sacerdozio si consacra l’anima, ma nel matrimonio si consacrano sia il corpo
che l’anima.
L’astinenza offerta a Dio dai cristiani nasce da una fede sincera e non può
essere ridotta alla strumentalità che Peter Brown legge nel messaggio degli apologisti
cristiani, assimilandolo all’interpretazione di Nietzsche: “Essi facevano
appello «alla persuasione che una persona che è eccezionale a questo riguardo
sia eccezionale anche per altri lati»”[11].
Tornando all’immagine che aveva colpito Galeno, si possono fare due
osservazioni: la sua fedeltà descrittiva è massima per le prime comunità e la sua
comparsa in alcune regioni del sud e dell’oriente sarà tardiva, dopo un
lunghissimo processo di conversione, perché in questi casi non è in questione
solo un mutamento di sensibilità spirituale come nel viraggio dallo stoicismo
ellenistico alla fede apostolica, ma è in gioco il radicamento antropologico in
una visone del mondo e in una prassi dei rapporti umani assolutamente distante.
In questi casi i cristiani sono veri stranieri.
Ad esempio a Costantinopoli, dopo la conversione, le fanciulle delle classi
meno agiate continuano ad esibirsi nude per il diletto degli uomini; così sono
nude le donne dei grandi spettacoli acquatici di Antiochia, Gerasa
e altre città. Ad Edessa, la più antica delle città cristiane del Vicino Oriente,
le danzatrici di pantomime si esibiscono in spettacoli erotici. Ad Alessandria,
all’ingresso dei bagni pubblici troneggiava una grande statua di Venere nuda, alla
quale si attribuiva il potere magico di svelare le donne adultere sollevando
loro – evidentemente mediante un colpo di vento – le vesti fin sopra la testa, così
rendendo pubblico ciò che avevano nascosto, secondo il tipico contrappasso
greco di esposizione al ludibrio degli adulteri. I vescovi erano stati
costretti a tollerare questo stato di cose, non riuscendo a cambiarle. La
statua di Venere fu fatta rimuovere, con un atto di imperio, da un governatore
locale musulmano, alla fine del VII secolo[12].
Un ultimo esempio di realtà rimasta lontana dalla sensibilità e dallo stile
dei seguaci del credo apostolico lo abbiamo nel 630 a Palermo. Accadde che il
governatore bizantino, recandosi ai bagni pubblici della città siciliana, fu affrontato
da trecento prostitute in assetto di sommossa, che lo costrinsero a dare ascolto
alle loro rivendicazioni. Il governatore ritenne accettabili le richieste delle
meretrici, tanto più che comportavano l’esercizio di un controllo della loro
attività; così le accolse e, ritenendo da buon bizantino di dovere rispetto all’autorità
religiosa, nominò Ispettore Imperiale dei Lupanari il Vescovo di Palermo, “attirandosi
così lo scandalizzato rimprovero di un Papa d’Occidente!”[13].
Quando, da minoranza religiosa i cristiani diventano protagonisti della
cultura egemone, saranno loro ad interpretare nelle parole e nell’arte l’alterità
delle minoranze, come apprendiamo da uno spettro di testimonianze che va dalla concezione
dei Padri della Chiesa sui non credenti alla collocazione di Maometto all’inferno
da parte di Dante[14] e del pittore Giovanni da Modena,
nell’affresco in San Petronio a Bologna ispirato alle parole del divin poeta[15].
Jacques Le Goff ci fornisce questa indicazione per comprendere la differenza
fra la civitas romana della tarda antichità e la cultura urbana
medievale: “Il mondo greco-romano era un mondo di città, e queste città
declinano tra il III e il IV secolo. Molte città medievali sussistono e si
sviluppano sul sito delle città romane e conservano i monumenti antichi, ma allo
stato delle rovine, i cui materiali vengono riutilizzati in nuove costruzioni.
La città medievale è tuttavia profondamente diversa dalla città antica[16]. Essa non è tanto un centro militare,
politico e amministrativo, quanto un centro economico e culturale”[17]. In proposito, è interessante la
prospettiva di Peter Brown che, studiando il fenomeno del monachesimo, trova la
documentazione di un fatto singolare: l’incremento esponenziale delle vocazioni
claustrali e l’edificazione di nuovi monasteri in tutto il mondo cristiano porta
a un parziale svuotamento delle città.
Le vie e le piazze in quegli anni sono percorse e frequentate solo per
necessità, solo per il tempo di una commissione, per esigenze di lavoro o per
recarsi in chiesa ai rintocchi delle campane che scandivano le orazioni infradiane. Non si viveva fuori di casa, se non nelle
botteghe, perché i luoghi della città non erano spazi di socializzazione. L’esatto
opposto delle città-teatro dove il cittadino, protagonista e spettatore, si
concepiva come parte di un insieme dinamico in continua evoluzione, dove la
vita dall’alba al tramonto era costante interazione comunitaria, condivisione, incontro,
scambio, rappresentazione, partecipazione, commedia e tragedia, come avveniva a
Megara in epoca classica o nella Napoli descritta da Goethe alla fine del ‘700.
La città non era più il luogo per eccellenza in cui la vita comune genera
cultura, espone arte e crea bellezza, per un semplice motivo: l’atto di anachorèsis, compiuto da una moltitudine di giovani per
vocazione, ha portato la maggior parte delle risorse di intelletto, creatività
e operatività pratica e manuale nei monasteri, sottraendo uomini perfino alle
milizie, oltre che a tutte le attività lavorative e sociali.
Così si esprime Le Goff al riguardo: “È la fuga nel deserto. A partire dal
V secolo, questo modello di vita si diffonde in Occidente, ove fa la sua
comparsa un tipo d’uomo fino allora sconosciuto: il monaco, l’uomo solo. Il
deserto del solitario occidentale è la foresta, che copre vaste regioni dell’Europa
cristiana. I monaci vi costruiscono monasteri in cui conducono una vita
comunitaria, o vi creano rudimentali eremi”[18].
Come ho osservato prima, il Medioevo è un’epoca di realizzazione di ideali
umani, anche se probabilmente i protagonisti avrebbero usato forme
semantico-lessicali e in parte concettuali diverse per definire la loro traduzione
in pratica di modelli della spiritualità neotestamentaria. Giovanni il Battista
aveva vissuto nel deserto nutrendosi di locuste e miele selvatico; Gesù stesso aveva
dimorato quaranta giorni in terra disabitata durante il suo digiuno
penitenziale: la dimensione dell’isolamento dal mondo, il cui principe è
Satana, è parte della vita del cristiano e non la vocazione di pochi alla
contemplazione. Gli uomini e le donne di fede comprendono l’importanza
edificante del ritiro in solitudine, grazie all’esperienza di sentirsi liberi
dal peso condizionante delle logiche del mondo, ordinate su priorità diverse da
quelle della vita spirituale. Comprendono, in pratica, l’impatto della
contiguità spazio-temporale con realtà materiali ed evocatrici sullo stato e
sull’ordine funzionale della coscienza.
Il cristianesimo è tutto focalizzato sulla coscienza, intesa quale consapevolezza
e responsabilità, così come lo è tutta la teologia del Logos, inteso
in senso giovanneo. La dimensione interiore è uno spazio al centro del quale deve
collocarsi il Signore, per conferire senso a tutte le astrazioni potenzialmente
evocabili ed emergenti attraverso la rete simbolica nella trama del pensiero. Se
il mondo occupa gran parte della tua coscienza, entra in questo spazio
interiore, sottraendolo in parte o in tutto al Signore, al fulcro in cui si
compie la tua identità e conferisce senso ad ogni istante della vita.
Alla luce di queste osservazioni, si comprende l’esigenza di chi vuol
vivere l’anachorèsis, ossia l’allontanamento
nel deserto, non come semplice fuga in un non-luogo diverso dalla
civitas, ma quale immersione in un ambiente esterno in cui possa avere espansione
il mondo interno per l’incontro con Dio. Il deserto, inteso a basso grado di
astrazione semantica quale ambiente naturale sabbioso, per chi nel mondo antico
percorresse un itinerario da una città a un’altra, era sinonimo di errore,
quale entrata nello spazio non conosciuto e non riconducibile alla ratione delle forme geometriche ed etiche della vita
urbana. Ovvero sinonimo di perdita della direzione, metafora tra le più vivide
per lo smarrimento di senso nel cammino della vita.
Non si tratta di questo. Il deserto del Vangelo è un luogo noto, vuoto di
segni del mondo ma intensamente evocativo della sua forza penitenziale in grado
di generare energia purificatrice. È questo l’erèmos
agognato per la quaresima della vita terrena, che compia il tempo di una
vita donata a Dio per la salvezza delle anime, a cominciare dalla propria.
[continua]
L’autore della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione
“NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-08 maggio 2021
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Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Si ricorda che le virtù
cardinali, cioè prudenza, giustizia, fortezza e temperanza,
intese secondo Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino, costituivano un fondamento
concettuale per l’educazione in tutta Europa, e hanno costituito base anche per
la bildung laica fino al secolo scorso. Paul Valéry così rende lo
spirito novecentesco: “La virtù è morta o, almeno, va morendo. Per quanto mi
riguarda, non l’ho intesa che con estrema rarità e sempre in tono ironico.
Ormai, infatti, la si incontra solo al catechismo, nelle barzellette e in
filosofia”. Implicitamente indicando quelle tre circostanze quali luoghi esclusi
dal vissuto reale dell’esperienza del suo tempo.
[2] Queste quattro virtù accomunano
tutti i cavalieri, ma ciascun ordine aveva la sua regola e il suo codice.
Il cavaliere donava la propria vita per gli altri conservando semplicità e
purezza di cuore. Mi piace ricordare come Walter Scott nel suo celebre The Talisman rende il profilo umano del cavaliere nell’episodio
in cui il giovane crociato, dopo la sospensione del combattimento col suo
nemico, accetta lealmente di conversare con lui e, quando questi gli chiede se sia
innamorato, arrossisce.
[3] Aspirazioni ideali portano alla
fondazione delle prime università, delle cattedre teologiche come quella di San
Tommaso d’Aquino che attrae a Napoli studiosi da tutto il mondo e del sistema
di studio perfetto che unisce in Firenze Trivio e Quadrivio, costituendo un
modello copiato da Oxford e Cambridge ed esportato come ideale di perfezione. È
su base ideale che nasce la grande scuola intellettuale monastica del Bec in Normandia, presieduta da Lanfranco di Pavia e poi da
Anselmo d’Aosta, entrambi divenuti arcivescovi di Canterbury. (Cfr. Le Goff, p.
78; per cit. nota 13).
[4] Luca: 3, 4. Il crollo improvviso
della torre della città di Siloe o Siloam è un fatto storico che scosse
i contemporanei e lasciò una traccia nella memoria dei popoli mediorientali.
Celebre il dipinto di Jacques-Joseph Tissot, che soggiornò dieci anni in
Palestina, rilevando che il crollo della torre era un fatto presente nella
coscienza collettiva dopo 18 secoli.
[5] Non è un caso che tale giudizio richieda
un processo di astrazione cosciente, ossia implichi l’attività delle reti neuroniche
alla base della coscienza, intesa nel senso neurofisiologico di insieme di processi
neoencefalici a fondamento della consapevolezza di
identità e dell’orientamento nel tempo e nello spazio.
[6] Nell’isola di Kos (Coo), sede della massima scuola
medica dell’antichità, Ippocrate insegnava all’ombra di un celebre platano,
dove andò a predicare anche Paolo di Tarso come medico dell’anima; nello stesso
luogo sorge un gigantesco platano (Platanus
orientalis) ritenuto discendente di quello antico
e stimato dai botanici d’età intorno ai 500 anni. Le donne di Kos conservano la tradizione di un rito antico e medievale
che termina abbracciando il fusto della pianta.
[7] Peter Brown, Tarda antichità,
in La vita privata dall’Impero Romano all’anno mille (Philippe Ariès e Georges Duby, a cura di),
p. 193, CDE (su lic. Laterza), Milano 1987.
[8] Cfr. Peter Brown, Tarda
antichità, op. cit., p. 195.
[9] La sostanza non è ascetica,
perché il fine del cristiano non è la perfezione del comportamento, ma è “amare
il prossimo per amare Dio e amare Dio per amare il prossimo”, di un amore
oblativo. La castità è un mezzo, non un fine: consente, associata a povertà e
obbedienza, di porre Dio al primo posto.
[10] Cfr. Peter Brown, Tarda
antichità, op. cit., p. 195. L’astinenza sessuale per raggiungere la semplicità
del cuore presso gli Ebrei divenne per i cristiani obbligo a conservare la purezza
costata il sangue del Signore Gesù Cristo.
[11] Cfr. Peter Brown, Tarda
antichità, op. cit., p. 193. L’ottica ateistica attribuisce ai casti l’intenzione
strumentale di essere considerati eccezionali.
[12] Cfr. Peter Brown, Tarda
antichità, op. cit., p. 225.
[13] Peter Brown, Tarda antichità,
op. cit., p. 225 (episodio tratto dai documenti originali esaminati da Peter Brown).
[14] Tra i seminatori di discordia
della nona bolgia (XXVIII canto) insieme con suo cugino Alì, genero e
successore come Califfo.
[15] Di Giovanni di Pietro Falloppi detto Giovanni da Modena si sa poco, ed è incerta
anche la data di nascita del 1379, ma il suo “Inferno” della cappella Bolognini
della chiesa di San Petronio scatena ancora ire e minacce di fanatici dell’Islam.
[16] Inteso particolarmente come romana,
perché la polis greca era, prima che un “luogo definito dalle leggi”, un
centro di cultura filosofica e artistica.
[17] Jacques Le Goff, Il Medioevo
- Alle origini dell’identità europea, p. 49, Laterza, Roma-Bari 2002.
[18] Jacques Le Goff, op. cit., p.
19.